Ciao a tutti e a tutte,
ho trovato molto interessante la riflessione di Giulia Blasi che ho letto sulla sua newsletter Servizio a domicilio <servizioadomicilio@substack.com>
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Ho cominciato a tenere un diario, un diario vero, come negli anni ‘80, penna su carta (grazie, amiche di Scintille: il quadernino che mi avete donato è stato messo a sistema). Scrivere sulla carta, per chi scrive di professione, non è solo un esercizio utile di manualità: è anche un segnale al cervello che quello che scrivi non è pensato per essere visto, consumato, compreso da altre persone che non sia tu. Su un quaderno ho pianificato Cose mai successe: progettare una vicenda che ruota intorno a un mistero è complesso, e la scrittura a mano ha una tridimensionalità che quella a video non ha. Il quaderno ha le pagine e le pagine si possono scorrere avanti e indietro, ci si possono appiccicare dei post-it, i tagli sono visibili, gli appunti possono essere sottolineati con maggiore o minore veemenza, cerchiati o segnati con penne colorate. L’atto di scrivere è di per sé un esercizio di liberazione della creatività: la scrittura a mano è più lenta della videoscrittura, anni di disuso l’hanno resa anche più complessa da gestire dal punto di vista della fluidità e della chiarezza, e per scrivere “bene” bisogna fare più attenzione.
Quella penna scrive benissimo.
Sono tutte abilità che la mia generazione aveva e sta perdendo a causa del disuso, e che le nuove generazioni perderanno nel tempo, se non dovessero esercitarle più, perché la scrittura a mano è sempre meno centrale nella nostra esperienza quotidiana. Non è una critica: ogni generazione sviluppa le competenze necessarie rispetto alla tecnologia esistente nel momento in cui vive, per cui io non saprei da dove cominciare per prendermi cura di una capra o una vacca (cosa che le mie ave erano perfettamente in grado di fare), ma so scrivere a mano, perché per moltissimo tempo la scrittura a mano è stata il mio metodo di comunicazione principale. Le lettere che mi scambiavo con Francesca nell’ultimo anno di liceo, e che scrivevamo a turno su un quadernino che ci passavamo di mano la mattina prima di entrare in classe, sono ancora custodite nella mia stanza a casa dei miei. Le posso rileggere. La mia grafia è nitida, ordinata, comprensibile, ogni lettera è riconoscibile. Ero abituata a scrivere molto, a scuola e a casa: compiti in classe, temi, diari, lettere. Mi piaceva (e mi piace tuttora) la cancelleria, compravo carta e buste decorate, penne a colori vivaci. L’atto di scrivere era di per sé una ginnastica per il cervello, meno automatizzata rispetto alla pressione delle dita su una tastiera.
Il mio diario di questi giorni è scritto male, la grafia è irregolare, la mano mi si indolenzisce, devo correggere delle lettere vergate in maniera imprecisa che finiscono per somigliare ad altre lettere o a fondersi con quella successiva in un modo che rende il segno grafico disordinato. Ma giorno dopo giorno il quaderno si riempie, le pagine scritte mi danno un senso di soddisfazione. Forse non le rileggerò mai. Probabilmente non ci farò nulla di creativo nell’immediato, ma questo esercizio mi serve. Dà struttura alle mie giornate e ai miei pensieri, mi libera dalla performatività della scrittura a video (che mi sembra destinata a essere letta da qualcun altro, e quindi viene scritta con quel registro e quelle modalità), risveglia aree del cervello che si erano assopite, muscoli che non sapevo più usare. Per me, che non so meditare perché mi innervosisco e il cervello non lo spengo mai, annotarmi i pensieri (piuttosto che lasciarmi travolgere) è un modo di governare il caos. La scrittura a mano mi costringe a rallentare.
Me ne accorgo davvero solo ora, quando il dibattito sulle intelligenze artificiali e i Large Language Model (LLM) sta andando nella direzione di toglierci le incombenze quotidiane, tipo scrivere una mail di presentazione, sistemare un curriculum, buttare giù un documento riassuntivo: quella fatica mi è ancora in buona parte indispensabile, e continuo a farla non (solo) per sfiducia nei confronti dello strumento, paura dell’appiattimento che genera o semplice inerzia generazionale, ma anche perché la voglio fare. Il processo è, per me, importante quanto il risultato.
Mutamenti e correttivi
Facciamo un esercizio un po’ laterale: immaginiamoci di sviluppare all’improvviso la capacità di teletrasportarci ovunque, in ogni momento, tipo Number Five di The Umbrella Academy, senza sforzo o dispendio di energie o danni per il nostro organismo. Lo faremmo? Certo che sì, sai il risparmio di tempo e soldi. Passi dopo passi in meno, ogni giorno, per spostarci ovunque¹. Dopo poco tempo, le nostre gambe avrebbero bisogno di essere forzate a un allenamento quotidiano per non perdere tono muscolare. E nascerebbero le fazioni: da un lato quelli che trovano che le gambette secche sotto la panza che cresce siano un prezzo da pagare tutto sommato sopportabile per eliminare i tempi di spostamento (e magari si giocherebbero pure qualche accusa di abilismo, perché di gente che non cammina è pieno il mondo), dall’altro quelli che ritengono che mantenere la funzionalità e la salute dell’organismo sia fondamentale non solo in senso assoluto, ma anche in caso di apocalisse zombie in cui i morti corrono. Avremmo quelli che vanno a piedi dappertutto, quelli che si teletrasportano dal bagno alla cucina, e quelli che si teletrasportano solo sulle lunghe distanze e con le dovute cautele, ma su quelle brevi conservano lo scetticismo e si domandano se sia proprio il caso di eliminare del tutto un movimento quotidiano².
Gli umani vanno in palestra perché non lavorano più nei campi. I miei avi non avevano l’abbonamento alla McFit: facevano i muratori. La mia bisnonna lavava i panni nel torrente che scorre al limitare del paese, dava le posate ai figli perché le strofinassero nella sabbia. Era un lavoro infame, faticoso, che distruggeva le mani, ma teneva il corpo in movimento. Quando abbiamo smesso di farlo, abbiamo dovuto trovare altri modi per muoverlo, il corpo. Abbiamo dovuto adeguare l’alimentazione al fabbisogno calorico diminuito di un nuovo stile di vita. Il genere umano ha corretto il tiro per non perdere delle funzionalità.
Al netto del fatto che i sistemi di intelligenza artificiale consumano una discreta quantità di acqua potabile (e quindi la metafora torna fino a un certo punto: il danno non è all’organismo, ma all’ambiente), rimane il fatto che stiamo rinunciando volontariamente a una serie di azioni che, nel loro tedio, sono l’equivalente intellettivo dei passi che servono per andare dalla camera al salotto più volte al giorno, o da casa al supermercato e ritorno. L’esercizio della lettura, della scrittura, della manualità, sono tutte attività che stimolano il nostro cervello in maniere diverse. Ginnastica per i neuroni. Possiamo rinunciarci, pensando che questo ci liberi spazio e risorse per svolgere i compiti davvero creativi, ma la mia sensazione è che la sottrazione di tutte le cose tediose non ci aiuti davvero a fare bene quelle che non lo sono. Che quei passi in meno vadano compensati.
Fuori di metafora: se la videoscrittura ci toglie buona parte delle abilità che venivano allenate dalla scrittura a mano, quali correttivi possiamo mettere in atto per rimediare al deficit di manualità creato dalla diffusione capillare di questa tecnologia? Se l’intelligenza artificiale si sostituisce a noi per scrivere una mail di lavoro, con cosa sostituiamo l’esercizio intellettivo che ci serve per ottenere il risultato che desideriamo?
So benissimo che le attività che ho elencato qui sopra non sono possibili a tutte e tutti allo stesso modo: l’insegnamento mi sta mettendo di fronte alla straordinaria varietà dei cervelli e della loro cablatura, e c’è chi legge ma fatica a scrivere, chi fatica a fare entrambe le cose, chi ha bisogno di mappare tutti i concetti a mano (e lo fa, e si appoggia su quelle mappe per costruire un discorso), e in altri tempi queste specificità non solo non venivano individuate, ma le persone neurodivergenti finivano per essere ghettizzate. Un sacco di talenti sprecati, un sacco di capocce scintillanti che venivano chiuse in un armadio solo perché non funzionavano come tutte le altre: per queste persone, un uso mirato degli strumenti tecnologici è un soccorso, non un limite.
So anche, perché non vivo su Marte, che i LLM sono ormai ovunque, che anche io ne faccio uso, volente o nolente (non avrei potuto mettere insieme l’articolo che ho linkato qui sopra solo cercando fonti e articoli su Google, o comunque Google era molto inefficiente nel restituirmi i risultati che cercavo: ho fatto un esperimento, e ChatGPT si è rivelato molto utile e molto più preciso nell’indirizzarmi ai dati che sapevo esistere, ma che non riuscivo a trovare), che gli algoritmi mi aiutano a incontrare persone che arricchiscono la mia visione del mondo, che non dover più sbobinare a mano un’intervista è il miracolo che ho desiderato per decenni. Ma è un discorso che vale comunque, perché ogni essere umano può (e forse deve) trovare il modo per allenare le proprie facoltà cognitive anche con attività che sembrano obsolete. Diari, appunti, schemi, ma anche - che romanticismo! - lettere di carta, che la mia generazione è stata l’ultima a scrivere e che sono ancora lì, dentro scatole impolverate. Lettere d’amore, intrise di struggimento. Lettere di parenti lontani. Lettere degli amici, pagine e pagine di racconti di vita, grafie diverse, inchiostri diversi, il tratto delicato delle stilografiche, le macchie e le sbavature di Bic malfunzionanti, i tagli e le correzioni. Conversazioni monche, a cui manca una parte che si intuisce leggendo quella che resta, e per questo restituiscono una sorta di strana tensione narrativa, che costringe l’immaginazione a riempire i vuoti. Le mail le ho perse tutte, le lettere no, sono ancora lì. Resteranno, quando io non ci sarò più. Saranno l’umano che resiste: imperfetto, indeciso, vivo nel mondo.
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