E se fosse sempre stato il corpo? Se fosse questo lo strumento con cui Guadalupe Nettel registra e trasmette il suo modo di vedere il mondo, di raccontarci il tempo? Il corpo da usare, per assimilare e poi estendere verso l’esterno, il corpo come lente di ingrandimento, come macchia d’olio che si espande.
Se "Il corpo in cui sono nata" mostra come comincia una bambina a vivere, come comincia una scrittrice a entrare nella letteratura, dimostra anche chi siamo, in qualche modo. Siamo nati tutti in un corpo, che ci piaccia o meno, con un difetto riconosciuto o meno, con un dolore di fondo o meno, ed è lì – muovendoci tra gli oggetti che hanno costruito la nostra memoria, tra i compagni di classe che ci hanno presi in giro, le ragazzine che nemmeno ci guardavano – che abbiamo cominciato a essere quello che saremmo diventati.
Guadalupe Nettel, la ragazzina con l’occhio bendato, ha trovato in quei giorni fuori fuoco il passo della sua scrittura, ed è diventata la scrittrice che leggiamo e ammiriamo. Ha visto, ha scritto.
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